Dopo essere stato ucciso un paio di volte da Hitler e aver ricevuto una sontuosa liquidazione, pari a circa due sacchi di patate e una volpe, animale che all'epoca eravamo obbligati a chiamare pelvo - ovvero "inutile bastardo" - perché nessuna bestia poteva essere più astuta del Führer, decisi di spostarmi da Berlino e mi diressi verso Monaco. Ricordo perfettamente quel viaggio, la Spagna non era mai stata tanto bella come in quella fine estate del 1933. Mi sovviene soprattutto la bellezza di Oslo con la sua arena per la corrida, che a quei tempi veniva condotta utilizzando le balene e non i tori, ma lo spettacolo non era mai un granché: le balene arrivavano nella plaza de balenas già morte e puzzavano quanto un marinaio norvegese impiegato nella pesca d'altura nel Sahara.
Giunsi a Monaco e trovai una piccola soffitta in cui abitare. Era un luogo molto accogliente e si trovava ad appena tre metri sotto al livello stradale, era molto fresca perché il sole vi batteva contro solamente per tutto il giorno e parte della notte. Vivevo insieme ad un gatto che abbaiava quasi tutte le notti. All'epoca i gatti erano gli animali sacri della Germania, per questo motivo bisognava assecondare ogni loro volontà. Il mio era molto tranquillo e si accontentava di rifarsi le unghie sulla mia schiena sei volte al giorno.
A forza di restare nella mia soffitta sottoterra divenni particolarmente pigro e il mio fisico infine ne risentì. Dopo aver avuto due attacchi di cuore, decisi fosse il caso di consultare immediatamente un oculista: il mal di fegato può essere molto pericoloso ed è opportuno farsi subito controllare i calli quando si hanno le prime avvisaglie di fitte alla nuca. Non sapevo a chi rivolgermi, così andai nella quarta clinica che trovai lungo la strada che divideva la mia soffitta dalla cantina attico in cui lavoravo.
Una donna molto sgarbata all'accettazione mi disse che in quel periodo buona parte dei medici erano in ferie, l'estate tedesca era un ottimo momento per andare a sciare. Tuttavia, mi consigliò un giovane apprendista, ancora studente universitario ma molto preparato, a detta sua. Accettai di buon grado allungando una mancia di 12 cactus e tre cent alla segretaria come si usava fare allora.
Il dottor Josef Mengele mi attendeva sull'uscio della porta seduto alla sua scrivania mentre osservava in piedi alla finestra il suo diploma nel primo cassetto dell'armadietto dei medicinali. Era uno strano personaggio, sembrava pervaso da una certa dose di malignità che lo rendeva amabile quanto il mio gatto. Mi fece una visita sommaria e mi propose una terapia d'urto per guarire.
Prima che potessi controbattere, mi amputò repentinamente una mano. Sorpreso, gli balzai al collo e iniziai a strangolarlo con le due mani che mi restavano, ringraziando il cielo per avermi fatto nascere con una mano di scorta. Mengele si dimenava, ma sentivo che ormai mancava poco al momento in cui gli sarebbero mancate le forze. E fu proprio in quel momento che chiese pietà. Ebbi la lucidità di mollare la presa e lo lasciai nello studiolo che tossicchiava senza fiato mentre intonava a pieni polmoni un'aria di Wagner.
A distanza di tanti anni rimpiango di aver mollato la presa. Il mondo avrebbe volentieri fatto a meno di quel pelvo. Tra l'altro, era un pessimo medico. Non mi curò nemmeno il mal di cuore.
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