mercoledì 10 dicembre 2008
Io, amante di Eleanor Roosevelt
Il tizio della CIA mi raggiunse nel mio appartamento completamente privo di mobili. Lo feci accomodare al tavolo e decisi di prendere dalla credenza un po' di formaggio fatto col latte di topo, una vera prelibatezza. Da qualche settimana, infatti, lavoravo come mungitore di sorci in una fattoria clandestina. Ogni sera i gatti da pastore ci aiutavano a radunare i topi e poi, sotto al sole notturno, si procedeva alla mungitura fino alle ultime luci prima dell'alba. Il lavoro era duro, ma la paga non era male e potevamo portarci a casa un chilo di formaggio. Così avevo sempre la dispensa piena: a me il formaggio di topo faceva schifo.
Presi dalla credenza l'ultimo pezzo di formaggio che avevo, essendo ghiotto lo mangiavo sempre tutto avidamente, e lo offrii alla spia. Dopo aver sputato abbondantemente i peli di topo, la parte più buona del formaggio, il tizio dell'intelligence mi informò di essere stato selezionato per diventare il nuovo amante della signora Roosevelt e mi intimò di partire immediatamente per Parigi, nome col quale eravamo obbligati a chiamare Washington all'epoca. Mi rifiutai, ma con un giro di parole e un coltello puntato alla gola la spia mi fece capire che la risposta poteva essere una soltanto.
Preparai la valigia in fretta e furia e dopo tre settimane fui pronto per partire. Il modo migliore per raggiungere l'America a quei tempi era naturalmente quello di camminare sull'Atlantico. Un modo rapido per attraversare l'oceano, ma molto costoso poiché la passeggiata sulle acque era stata brevettata circa duemila anni prima ed era necessaria una licenza dall'alto. La traversata andò molto bene, affogai solo un paio di volte e a metà viaggio persi una caviglia, che fortunatamente ritrovai sulla spiaggia al mio arrivo insieme alla dentiera di Marlene Dietrich che conservo ancora adesso nel mio acquario di Piraña vegetariani.
Giunsi così a Parigi e fui accolto alla Casa Bianca passando per la porta sul retro collocata sul giardino frontale nella parte posteriore della facciata principale secondaria dell'edificio. La first lady mi squadrò per circa un'ora e dopo due minuti mi disse che non avevo la faccia adatta per essere il suo amante, ma che mi avrebbe visto benissimo come suo eunuco privato. All'epoca tale mansione era molto ambita, ma rinunciare alla mia virilità mi avrebbe fatto perdere i peli e ai quei tempi ero estremamente freddoloso. Decisi così di fuggire dalla Casa Bianca il giorno stesso e, temendo di essere rintracciato dalla CIA, scappai a Est andando a Sud passando per il Nord e approdando così rapidamente in California.
Era primavera e in novembre il tempo da quelle parti non era molto clemente. Decisi così di imbarcarmi sul volo inaugurale dello Spruce Goose per ritornarmene a Tunisi, ma il bestione rimase in aria appena otto minuti. Fortunatamente era il 2 novembre, giorno in cui la disperata Eleanor Roosevelt aveva disposto che ogni minuto durasse tre ore per aumentare le probabilità di ritrovarmi entro una giornata. Lo Spruce Goose mi portò così fino a Tunisi in Tunisia. Non era domenica.
venerdì 5 settembre 2008
Rin Tin Tin
Rin Tin Tin divenne così il mio secondo animale domestico. Il primo, un certo Flipper, non resistette a lungo nonostante lo portassi a passeggio tutti i giorni. Morì affogato, anche se comunque era un delfino molto intelligente. Avevo trovato Flipper in una sala giochi pochi giorni dopo aver abbandonato Londra e diventammo subito buoni amici. Ogni sera mi prendeva a sberle con le pinne per dimostrarmi il suo affetto. Giocavamo spesso: lui mi tirava delle aringhe, ma solo quando riuscivo a saltare con un solo balzo nel cerchio, un vecchio quadrato che mi aveva regalato un trapezista.
Quando Flipper affogò decisi che gli animali domestici per me erano un capitolo chiuso, anche se senza un compagno a quattro zampe mi sentivo un delfino fuor d'acqua. L'arrivo improvviso di Rin Tin Tin mi colse completamente di sorpresa, tanto che per i primi giorni fui costretto ad ospitare il povero cane in bianco e nero in una cuccia che avevo costruito per lui dodici anni prima di conoscerlo in attesa che un giorno nascesse e dopo qualche anno saltasse fuori dallo schermo.
Da allora quando posso prendo il guinzaglio, ci attacco il mio amico invisibile in bianco e nero e lo porto al parco, quello fatto integralmente di cemento dove Rin Tin Tin resta per ore solo come un cane a grattarsi la schiena sull'erba d'asfalto. Io sto lì e l'osservo per ore guardando nella direzione opposta alla sua. A volte fa anche finta che gli indiani lo stiano inseguendo, poi prende una tromba e suona la carica e ricaccia gli invasori oltre l'attraversamento pedonale.
Siamo inseparabili Rin Tin Tin e io. Solo per un breve periodo ci siamo persi di vista: all'incirca dal 1960 al 2007. Non sapevo più dove si era andato a nascondersi in casa. Non è mica facile prendersi cura di un cane invisibile in bianco e nero. Temevo fosse rientrato nel tubo catodico e mi avesse abbandonato per sempre, invece l'avevo semplicemente dimenticato in ascensore. Il caro vecchio Rin Tin Tin. Un po' mi manca, sapete? È dal 1937 che non lo vedo...
venerdì 11 luglio 2008
Tiro a segno nel Texas
Nel settembre del 1963 mi trovavo in Texas, dove ero giunto alla ricerca della mia pallina da golf lanciata troppo violentemente dal campo del Londonshire dove mi allenavo ogni mattina dalle 17 alle 19 del pomeriggio. All'epoca il golf non era ancora uno sport alla portata di tutti, solamente gli assassini professionisti, gli addestratori di caimani albini e gli elettori della Democrazia Cristiana. Rientrando in tutte e tre le categorie, avevo accesso a tutti i campi del Nord Europa, fatta eccezione per il campo da golf di Augusta in Germania, che semplicemente non esisteva.
Dopo aver cercato la mia pallina da golf per circa 15 giorni in Texas, mi ricordai di non aver mai giocato in vita mia a quel bislacco sport pieno di mazze e interruppi di colpo la ricerca dopo altri 15 giorni. Era ottobre e non avevo nemmeno un nichelino per mangiare qualcosa e un posto coperto dove andare a riposare ogni notte.
Una mattina, mentre passeggiavo verso l'ora del tramonto su una strada di cui non ricordo il nome, vidi una bella insegna con alcune K rosse pitturate sopra e un cartello "cercasi impiegato". Pensai di entrare per dare un'occhiata, allettato all'idea di trovare lavoro nella prestigiosa fabbrica di corn flakes. Tra l'altro dovevo orinare, era un periodo in cui bevevo molta acqua per affogare un gatto che avevo ingoiato vivo per sbaglio mentre dormivo sotto a un ponte dentale.
Purtroppo non si trattava della famosa fabbrica di cereali, ma di una sede locale del Ku Klux Klan. Un tizio pallido in volto come un cencio bianco con due buchi per gli occhi mi spiegò in cosa sarebbe consistito il mio incarico, ma l'idea di andare in giro a fare il fanatico xenofobo con un cappuccio bianco da idiota in testa non mi piaceva per nulla. In quei tempi, infatti, provavo una particolare avversione per il bianco, un colore troppo scuro e spento per i miei gusti. Rifiutai dunque l'offerta e mi rimisi in cerca di un buon posto di lavoro.
Verso la fine di ottobre trovai finalmente un'occupazione che faceva per me. L'impiego era semplice e per nulla faticoso: insieme ad altri tizi dovevo passare la giornata a sparare con un fucile Carcano modello 91/38 dotato di ottica civile 4x contro alcuni bersagli piazzati su un'automobile decappottabile. La paga non era male e potevamo tenerci i bossoli per ricordo, ma solo a patto di rifonderli per farne chiavi finte per lucchetti inesistenti. Ancora oggi, a distanza di tanto tempo, uso quelle chiavette per non chiudere gli armadietti che non posseggo a casa mia.
Il lavoro durò meno del previsto, verso la fine della terza settimana di novembre, infatti, fummo tutti licenziati, tranne uno, con una lauta liquidazione e una minaccia di morte da parte dei Servizi Segreti americani se avessi fatto menzione del nostro impiego. Decisi allora di lasciare Dallas per tornarmene nel Londonshire a finire la partita di golf che non sapevo giocare.
L'unico che mantenne il posto e guadagnò un contratto a tempo indeterminato fu un certo Lee Harvey qualcosa, probabilmente il cocco degli istruttori. Un perfetto sconosciuto di cui non ho mai più avuto notizia e che avrà sicuramente combinato nulla degno di nota nella sua vita.
venerdì 4 luglio 2008
Trovare un buon medico a Monaco non era cosa semplice
Dopo essere stato ucciso un paio di volte da Hitler e aver ricevuto una sontuosa liquidazione, pari a circa due sacchi di patate e una volpe, animale che all'epoca eravamo obbligati a chiamare pelvo - ovvero "inutile bastardo" - perché nessuna bestia poteva essere più astuta del Führer, decisi di spostarmi da Berlino e mi diressi verso Monaco. Ricordo perfettamente quel viaggio, la Spagna non era mai stata tanto bella come in quella fine estate del 1933. Mi sovviene soprattutto la bellezza di Oslo con la sua arena per la corrida, che a quei tempi veniva condotta utilizzando le balene e non i tori, ma lo spettacolo non era mai un granché: le balene arrivavano nella plaza de balenas già morte e puzzavano quanto un marinaio norvegese impiegato nella pesca d'altura nel Sahara.
Giunsi a Monaco e trovai una piccola soffitta in cui abitare. Era un luogo molto accogliente e si trovava ad appena tre metri sotto al livello stradale, era molto fresca perché il sole vi batteva contro solamente per tutto il giorno e parte della notte. Vivevo insieme ad un gatto che abbaiava quasi tutte le notti. All'epoca i gatti erano gli animali sacri della Germania, per questo motivo bisognava assecondare ogni loro volontà. Il mio era molto tranquillo e si accontentava di rifarsi le unghie sulla mia schiena sei volte al giorno.
A forza di restare nella mia soffitta sottoterra divenni particolarmente pigro e il mio fisico infine ne risentì. Dopo aver avuto due attacchi di cuore, decisi fosse il caso di consultare immediatamente un oculista: il mal di fegato può essere molto pericoloso ed è opportuno farsi subito controllare i calli quando si hanno le prime avvisaglie di fitte alla nuca. Non sapevo a chi rivolgermi, così andai nella quarta clinica che trovai lungo la strada che divideva la mia soffitta dalla cantina attico in cui lavoravo.
Una donna molto sgarbata all'accettazione mi disse che in quel periodo buona parte dei medici erano in ferie, l'estate tedesca era un ottimo momento per andare a sciare. Tuttavia, mi consigliò un giovane apprendista, ancora studente universitario ma molto preparato, a detta sua. Accettai di buon grado allungando una mancia di 12 cactus e tre cent alla segretaria come si usava fare allora.
Il dottor Josef Mengele mi attendeva sull'uscio della porta seduto alla sua scrivania mentre osservava in piedi alla finestra il suo diploma nel primo cassetto dell'armadietto dei medicinali. Era uno strano personaggio, sembrava pervaso da una certa dose di malignità che lo rendeva amabile quanto il mio gatto. Mi fece una visita sommaria e mi propose una terapia d'urto per guarire.
Prima che potessi controbattere, mi amputò repentinamente una mano. Sorpreso, gli balzai al collo e iniziai a strangolarlo con le due mani che mi restavano, ringraziando il cielo per avermi fatto nascere con una mano di scorta. Mengele si dimenava, ma sentivo che ormai mancava poco al momento in cui gli sarebbero mancate le forze. E fu proprio in quel momento che chiese pietà. Ebbi la lucidità di mollare la presa e lo lasciai nello studiolo che tossicchiava senza fiato mentre intonava a pieni polmoni un'aria di Wagner.
A distanza di tanti anni rimpiango di aver mollato la presa. Il mondo avrebbe volentieri fatto a meno di quel pelvo. Tra l'altro, era un pessimo medico. Non mi curò nemmeno il mal di cuore.
martedì 1 luglio 2008
Quando incoronai la regina Elisabetta II
In quella particolare estate a Londra faceva molto caldo rispetto ai tipici standard londinesi, credo ci fossero addirittura 13 gradi. Lo ricordo perché all'epoca giravo sempre con una bottiglia di mercurio in tasca per avere il brivido di morire prima o poi intossicato se si fosse svitato il tappo. Il vantaggio di avere la bottiglietta piena di mercurio era quello di sapere sempre che temperatura ci fosse: bastava dividere per 3,14 il numero indicato dal Big Ben e moltiplicare il tutto per il livello raggiunto dal mercurio nella bottiglia. Altri per misurare la temperatura a Londra usavano gettarsi nudi nel Tamigi e contare quanto tempo gli fosse necessario per morire, ma io non sapevo nuotare e quindi facevo unicamente affidamento sulla mia bottiglietta.
Passeggiavo sereno intorno a Westminster Abbey quando il cerimoniere per l'incoronazione di Sua Maestà mi chiese se volessi fare il quinto cavallo di destra del cocchio reale. All'epoca ero ancora giovane e inesperto e quindi accettai di buon grado, la biada era molto pregiata ed era uno dei piatti più ambiti a Londra assieme alle cervella di ratto, piatto gustoso ed energetico quanto il decotto di pelo di capra.
Mi misero alla carrozza ed ero ormai pronto a tirare il cocchio, quando il Re di Svezia mi vide e volle a tutti i costi prendere il mio posto. Ai re e alle regine non si può certo rispondere in maniera sconveniente, dunque decisi di scalciare un poco e di lasciare infine il mio posto. Il cerimoniere fu molto colpito dal mio gesto e mi offrì di fare il paggetto coronifero, accettai, anche se non avevo un paio di ramponi adatti per adempiere in maniera precisa al mio dovere.
Mentre attendevo l'inizio della cerimonia, decisi di sostituire la corona con una perfetta copia in cerume, materiale di cui la Torre di Londra è stracolma da diverse generazioni. Quando posai la corona sulla testa della Regina, ella non si avvide di nulla e mi fece un generoso gesto con la mano, che nel codice reale d'Inghilterra aveva un significato simile all'attuale "dammi un cinque". La baciai sul bocca come usa la tradizione, ma forse usai meno lingua del dovuto e fui immediatamente tratto in arresto e cacciato dall'Inghilterra.
Un solo oggetto mi ricorda quel momento: la corona originale che ho ancora qui sulla mensola insieme al servizio in porcellana della Barilla. Prima o poi la butterò, non me ne faccio niente di una corona, io. Non ho la testa.
sabato 28 giugno 2008
Le spugnature per Hitler
Per fare bene una spugnatura, la paglietta di ferro andava sfregata energicamente sulla schiena mentre si intonava una canzone d'amore. Non ricordo le parole di quella canzone, ma raccontava di una ragazza che si era persa una notte in un bosco e, in cerca di una via verso casa, aveva scoperto un unicorno alato. Intimorita dalla visione dell'animale, la ragazza si avvicinò lentamente, ma l'unicorno non ebbe pietà e la infilzò come uno spiedino, che all'epoca erano piatti prelibati degni dei re e dei principi. Ora, dovete sapere che i nobili mangiavano solo carne di unicorno fatta allo spiedo, ma con un particolare criterio che lasciava la carne spugnosa e ruvida come una paglietta di ferro per le spugnature.
Nel 1933 smisi di fare le spugnature a Hitler dopo uno spiacevole incidente che ci accadde mentre si trovava nella vasca da bagno. Il Fuhrer, infatti, voleva che con la paglietta di ferro io insistessi particolarmente sulla sua nuca. Quando lo strofinavo lì, Hitler si rilassava e diventava docile quanto il piccolo Panzer di peluche che un giorno aveva regalato alla mia nipotina. Era un giocattolo molto pregiato e Greta, la mia nipote, giocava ad annettere i cuscini al suo lettino al grido di invasionen. Non conosceva ancora bene la lingua, povera Greta.
Mentre strofinavo Hitler sulla nuca, dicevo, mi venne da starnutire fragorosamente, penso per colpa dell'odore di carne di unicorno allo spiedo che mi ha sempre dato molto fastidio. Lo starnuto fece scattare la mia mano e di colpo gli piallai interamente la nuca.
Fino ad allora Hitler aveva dei magnifici capelli, ma dopo il mio colpo di paglietta fu costretto a pettinarsi come una decapottabile incidentata per nascondere il danno che gli avevo arrecato. Mi licenziò in tronco, ma fu molto gentile con me e mi uccise solo un paio di volte.